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subota, 03.05.2025 15:00

Un paese di primule e caserme

Una questione italiana che non conquista le prime pagine dei quotidiani, che non accende su di sé i riflettori della cronaca televisiva. Una ferita storica, che reca tracce evidenti nel presente di una regione lacerata da un secolo di guerre. La questione del Friuli Venezia Giulia, che, dai primi del Novecento alla fine degli anni Ottanta, ha rappresentato uno dei territori più militarizzati d'Europa. Dalle trincee della prima guerra mondiale alla cortina di ferro della guerra fredda, la regione più orientale del Nord Italia regge ancora sulle spalle il peso di un passato segnato dai conflitti e dai molteplici tentativi di imporre labili confini. L'ultimo muro della guerra fredda è caduto solo nel 2004: si tratta del Muro di Gorizia, una recinzione costruita nel 1947 e collocata lungo il confine tra il nostro paese e la Jugoslavia, abbattuta solo con l'ingresso della Slovenia nell'Unione Europea. A raccontarci questa storia così recente, eppure così spesso ignorata, è il regista Diego Clericuzio, che si pone l'obiettivo di attribuire un volto umano alla militarizzazione di un territorio, restituendoci le facce, le parole e i sentimenti di chi ha lavorato, sofferto, combattuto, temuto e gioito dentro le tante caserme e i molti siti militari della zona. Si calcola che circa 3 milioni di persone abbiano svolto il servizio militare in Friuli Venezia Giulia. Nelle 428 caserme della regione, una ogni 15-20 chilometri, per un totale di 102 chilometri quadrati di terra, il cui sviluppo è stato a lungo condizionato da vincoli che impedivano qualsiasi genere di attività produttiva che non fosse militare. Oggi, la stragrande maggioranza di questi siti risulta dismessa e abbandonata e sono davvero rari i casi di riconversione in positivo, come quello di Spilimbergo, dove un'ex caserma è stata trasformata in un parco fotovoltaico di 17 ettari. Purtroppo, la gran parte dei siti militari del Friuli versa in uno stato di decadimento e degrado che tende a contagiare anche le zone contigue, dove le comunità locali sembrano aver perso quella vitalità che, nel bene e nel male, ne ha contrassegnato la storia. Come dimostrano i molti matrimoni tra le donne friulane e gli uomini meridionali di leva. Quegli stessi uomini che oggi ricordano i momenti di freddo e paura trascorsi tra le Alpi, ma che al contempo rimpiangono il senso di appartenenza e di fratellanza di quell'esperienza di vita. Il merito del regista è proprio quello di raccontarci le loro storie, ricomponendo i pezzi di un puzzle che, parafrasando Pasolini, ci rimanda l'immagine di "un paese di primule e caserme". Se c'è un demerito in questo documentario è l'eccessiva staticità del montaggio, troppo spesso basato su immagini fisse in successione. È evidente che si tratta di un lavoro svolto con passione in economia di mezzi, ma una maggiore dinamicità nel racconto e nell'uso del mezzo cinematografico avrebbe di certo giovato all'emozione e riscaldato i freddi e desolati paesaggi alpini al centro della scena. Dokumentarni film.Una questione italiana che non conquista le prime pagine dei quotidiani, che non accende su di sé i riflettori della cronaca televisiva. Una ferita storica, che reca tracce evidenti nel presente di una regione lacerata da un secolo di guerre. La questione del Friuli Venezia Giulia, che, dai primi del Novecento alla fine degli anni Ottanta, ha rappresentato uno dei territori più militarizzati d'Europa. Dalle trincee della prima guerra mondiale alla cortina di ferro della guerra fredda, la regione più orientale del Nord Italia regge ancora sulle spalle il peso di un passato segnato dai conflitti e dai molteplici tentativi di imporre labili confini. L'ultimo muro della guerra fredda è caduto solo nel 2004: si tratta del Muro di Gorizia, una recinzione costruita nel 1947 e collocata lungo il confine tra il nostro paese e la Jugoslavia, abbattuta solo con l'ingresso della Slovenia nell'Unione Europea. A raccontarci questa storia così recente, eppure così spesso ignorata, è il regista Diego Clericuzio, che si pone l'obiettivo di attribuire un volto umano alla militarizzazione di un territorio, restituendoci le facce, le parole e i sentimenti di chi ha lavorato, sofferto, combattuto, temuto e gioito dentro le tante caserme e i molti siti militari della zona. Si calcola che circa 3 milioni di persone abbiano svolto il servizio militare in Friuli Venezia Giulia. Nelle 428 caserme della regione, una ogni 15-20 chilometri, per un totale di 102 chilometri quadrati di terra, il cui sviluppo è stato a lungo condizionato da vincoli che impedivano qualsiasi genere di attività produttiva che non fosse militare. Oggi, la stragrande maggioranza di questi siti risulta dismessa e abbandonata e sono davvero rari i casi di riconversione in positivo, come quello di Spilimbergo, dove un'ex caserma è stata trasformata in un parco fotovoltaico di 17 ettari. Purtroppo, la gran parte dei siti militari del Friuli versa in uno stato di decadimento e degrado che tende a contagiare anche le zone contigue, dove le comunità locali sembrano aver perso quella vitalità che, nel bene e nel male, ne ha contrassegnato la storia. Come dimostrano i molti matrimoni tra le donne friulane e gli uomini meridionali di leva. Quegli stessi uomini che oggi ricordano i momenti di freddo e paura trascorsi tra le Alpi, ma che al contempo rimpiangono il senso di appartenenza e di fratellanza di quell'esperienza di vita. Il merito del regista è proprio quello di raccontarci le loro storie, ricomponendo i pezzi di un puzzle che, parafrasando Pasolini, ci rimanda l'immagine di "un paese di primule e caserme". Se c'è un demerito in questo documentario è l'eccessiva staticità del montaggio, troppo spesso basato su immagini fisse in successione. È evidente che si tratta di un lavoro svolto con passione in economia di mezzi, ma una maggiore dinamicità nel racconto e nell'uso del mezzo cinematografico avrebbe di certo giovato all'emozione e riscaldato i freddi e desolati paesaggi alpini al centro della scena.


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